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La notte delle prime volte

La notte delle prime volte

di Andrea Poma

  1. John Wall, cestista e capitano della franchigia NBA dei Washington Wizard, ha recentemente affermato che solo una magia potrebbe salvare il disastroso inizio stagione della sua squadra. Quella stessa magia salvifica che stanotte ha illuminato la tornata elettorale di midterm negli USA. Nella notte delle stelle, assecondando le perfette trame di una regia di Hollywood, il finale ha riservato una cascata di simboliche e storiche “prime volte”. L’ondata blu non è arrivata ma la marea ha comunque travolto le certezze del Grand Old Party e di Donald Trump: il Partito Democratico ha infatti conquistato la maggioranza assoluta della Camera dei Rappresentanti. Un trionfo che ridisegna gli equilibri politico-istituzionali degli Stati Uniti e che costringerà il Presidente a trovare costantemente un accordo e una mediazione forzata con il ramo basso di Capitol Hill. Una situazione inedita per l’inquilino della Casa Bianca che nei primi due anni di mandato aveva potuto contare su una solida maggioranza al Congresso, concretizzatasi nella “conquista” anche della Corte Suprema con la discussa elezione del giudice ultraconservatore Brett Kavanaugh.
  2. Tante le storie da “prima volta” che meriterebbero la copertina di queste autunnali Midterm Elections. Per la verità qualcuna sulla prima pagina, del Time, ci era già finita per davvero. Stiamo parlando della democratica Ilhad Omar, eletta in Minnesota con il 78,7% delle preferenze e prima rifugiata africana a sedersi sugli scranni del Congresso. Fuggita a 8 anni dalla guerra civile che devastava la Somalia, ha vissuto per molto tempo in un campo profughi in Kenya prima di raggiungere gli Stati Uniti nel 1997. Insieme alla neo-deputata Rashida Tlaib (eletta in Michigan) rappresentano le prime due deputate di fede musulmana elette alla Camera. First time anche per l’astro nascente del Partito Democratico, la giovane 29enne Alexandria Ocasio-Cortez, eletta nel distretto del Bronx di New York, che dopo aver sconfitto alle primarie democratiche Joseph Crowley con oltre il 57% dei voti, ha facilmente avuto la meglio sul 72enne repubblicano Anthony Pappas, sconfitto con il 78% dei voti. La Cortez, di origini portoricane, rappresenta la più giovane eletta nella storia americana al Congresso. E’ stato eletto invece in Colorado il primo governatore gay degli USA. Si tratta del democratico Jared Polis che ha avuto la meglio sul candidato repubblicano Walker Stapleton, con il 51,6% delle preferenze. Si chiamano Sharice Davids e Deb Haaland le prime donne native americane, ovvero discendenti dalle popolazioni indigene che abitavano il continente americano prima della colonizzazione europea, ad aggiudicarsi un seggio al Congresso. Candidate entrambe nel Partito Democratico hanno trionfato rispettivamente nel proprio distretto in Kansas e New Mexico. In ottica femminile si è trattata di una tornata elettorale estremamente positiva, dato che i “seggi rosa” a Capitol Hill saranno ben 113, un record di presenza assoluto.
  3. Le elezioni di metà mandato, storicamente ostili al potere esecutivo in carica, ci hanno consegnato numerose storie biografiche affascinanti, ma al contempo hanno tinteggiato degli Stati Uniti camaleontici e profondamente spaccati attorno alla divisiva figura del Presidente Trump. Trattasi di linee di frattura elettorale, economica e civile, che investono la multietnica società americana. Mai la geografia politica americana è apparsa così polarizzata: i democratici si sono confermati primo partito nei grandi centri urbani e lungo le direttrici marittime atlantica e pacifica, mentre i repubblicani hanno ampiamente trionfato nella “deep State” e nelle aree industriali del centro-america. Secondo il Washington Post il tema più caro all’elettorato americano in questa tornata elettorale è stato quello sanitario, seguito a ruota da quello migratorio ed economico. Segno che nonostante i picchi positivi dell’economia americana (+3,8% del PIL e disoccupazione scesa ai minimi termini), le disuguaglianze sociali si sono irrigidite e il clima generale che spira sul Paese è di generale preoccupazione, insicurezza e diffidenza. I democratici devono cogliere l’occasione propizia, evitando di appiattirsi sulla mera e scialba contestazione della retorica trumpiana e costruendo un progetto serio ed antitetico rispetto alle posizioni populiste, conservatrici e vetero-nazionalistiche cavalcate dall’esecutivo del Grand Old Party. S’intravvedono nel buio le prime crepe del mito dell’invincibilità eretto dal Presidente Donald Trump, ma la strada da intraprendere per il Democratic Party è ancora molto lunga, faticosa e irta di ostacoli.

Le armi spuntate dell’autoritarismo governativo in Europa

di Andrea Poma

1. In dottrina si tende a considerare la politica estera come estranea all’agone politico e ai giochi di potere partitici. Generalmente i capisaldi e i principi generali dell’agire concreto negli affari internazionali non dovrebbero, quantomeno nei fini ultimi e negli obiettivi sostanziali, riflettere o essere apertamente influenzati dalle opinioni o dal pensiero politico dell’élite al governo. L’interesse nazionale non ha colore o ideologia, ma cangia e si adatta al mutare del contesto storico e del sistema di riferimento globale a cui asserisce. Esso s’intarsia sulla base di profonde istanze geopolitiche, economiche, sociali e strutturali, e non certo sulle passioni estemporanee o sul carattere, spesso schizofrenico, del legislatore chiamato al comando dalle urne. D’altro canto, per usare le parole del geopolitico americano Nikolas Spykman, “[Geography] It is the most fundamentally conditioning factor in the formulation of national policy because it is the most permanent. Ministers come and ministers go, even dictators die, but mountain ranges stand unperturbed”[1]

2. Preso atto della premessa è lecito chiedersi se l’azione del Governo italiano, con particolare riferimento alle due prominenti figure di capi partitici che annovera al proprio interno, collimi de facto con il corroboramento dell’interesse nazionale e con la crescita della posizione italiana nell’orizzonte europeo ed internazionale. Questione preliminare a predetto quesito risulta essere la nozione di interesse nazionale. Espressione già di per sé sfuggevole e fumosa, essa assume, nella fattispecie italiana, una connotazione di difficile interpretazione, a causa di una serie di fattori intrinseci. Sin dalla nascita dello Stato unitario (1861), l’azione internazionale del Governo ha dovuto scontare una serie di forti criticità dettate da concause naturali (vulnerabilità dei confini e posizione geografica peninsulare costantemente dilaniata fra le istanze mediterranee e continentali, nonché la vicinanza alla polveriera dei Balcani), internazionali (costante ricerca di un rango internazionale “appropriato”, ricorso al presenzialismo e ricerca di alleanze asimmetriche con Potenze globali), politiche (instabilità politica, frequenti scontri istituzionali e disinteresse generalizzato delle élite politiche nei confronti degli affari internazionali) e socio-economiche (disparità economica ed industriale tra Nord e Mezzogiorno, presenza radicata di Mafie e criminalità organizzata nel tessuto sociale di ampie aree del Paese, deficit di strumenti e di riforme strutturali del modello macroeconomico, esposizione finanziaria e debito pubblico esorbitante). Ciò ha prodotto conseguenze tangibili sulla politica estera italiana generando uno status ibrido di potenza (piccola o media Potenza?), che si scontra con un serpeggiante sentimento di incertezza e di debole credibilità internazionale (a cui per la verità hanno contribuito episodi grotteschi e poco edificanti perpetrati dal nostro corpus politico-diplomatico)[2]. Ad ogni modo, se dovessimo ricercare un filo conduttore utile a rintracciare una parvenza di disegno strategico nazionale, nel marasma della politica estera italiana, potremmo citare l’ancoraggio al multilateralismo avallato senza particolari indugi a partire dal Governo di unità nazionale presieduto da Alcide De Gasperi (1945). La scommessa di Roma di puntare sullo sviluppo e il rafforzamento delle istituzioni comunitarie ed internazionali[3] ha pagato, in parte, i dividendi sperati, rilanciando la traballante posizione italiana, appena uscita dalle macerie di una guerra civile e di una dittatura, sia nel campo Occidentale sia nel panorama globale. La crescita sostanziale delle Nazioni Unite e l’adesione alla NATO e alla Comunità Europea hanno contribuito in maniera determinante al progresso e all’espansione economica e politica dello Stato italiano.

3. Sicuramente il percorso europeo è risultato il più fecondo dal punto di vista dei risultati e del mero tornaconto nazionale. Nonostante le alterne fortune del progetto comunitario, la fine della Guerra Fredda (e della “cortina di ferro” tra gli assi Est/Ovest in seno al Vecchio Continente) e la rinnovata forza motrice impressa dal Trattato di Maastricht hanno tratteggiato quell’embrione di unione politica tanto agognata dai padri fondatori e dagli idealisti europei fin dalla prima metà del XX secolo[4]. La scelta dell’aggregazione europea, posta come vincolo dal Presidente degli Stati Uniti Henry Truman per poter accedere alle tranches di aiuti economici previsti nel Piano Marshall, unita alla convergenza militare atlantica, sancita con la firma del North Atlantic Treaty nell’aprile 1949, comportò un sostanziale miglioramento del falcidiato quadro generale europeo del post-guerra e un benessere diffuso nelle società del campo Occidentale. Tra il 1958 e il 1970, la CEE composta dai sei paesi fondatori vide le sue esportazioni verso gli Stati Uniti salire da 1,7 miliardi di dollari a 6,6 miliardi, con una percentuale che passò dal 10,9% al 14,8% del totale delle esportazioni dei sei[5]. Allo stesso tempo il mercato comune europeo si rivelò un tassello decisivo nel fenomeno del “miracolo economico italiano”: tra il 1961 e il 1970 il PIL italiano crebbe ad un tasso medio del 5,7%[6] (con un apice del 8,2% nel 1961), nel triennio 1959-61 il reddito pro capite crebbe ad un tasso medio del 6,3% mentre la produzione industriale aumentò del 31,4%. Trattasi di dati macroeconomici straordinari che traghettarono l’Italia da paese arretrato e basato sull’agricoltura ad una tra le principali Potenze economiche internazionali, come certificato dall’ingresso nel G6 nel 1976. I positivi influssi europei tuttavia non si limitarono unicamente all’ambito economico, ma interessarono ogni altro aspetto della vita sociale e politica italiana. Basti solamente pensare agli Atto finale di Helsinki della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (1975) in cui il tema del rispetto dei diritti umani vanne elevato a carattere universale, o al perdurante periodo di pace (macchiato per la verità dai conflitti etnici nei Balcani e dalla Crisi ucraina del 2014) che ha visto protrarsi dal 1945 ai giorni nostri, in un Continente da sempre fautore e assertore di guerre. Inoltre nel mondo della globalizzazione e dei sistemi regionali, dove grandi Potenze emergenti o revansciste si apprestano a sfidare il dominio monocipite degli Stati Uniti d’America, solo un’Italia inserita profondamente nel diagramma dell’Unione Europea può sperare efficacemente di giocare un ruolo attivo nella costruzione dei legami e delle interdipendenze del futuro sistema internazionale. Presi singolarmente infatti saremmo deboli e insufficienti, anche in rapporto ad altri Stati europei (Francia, Germania, Regno Unito) che possono giocare diverse ed importanti pedine (rango militare, economia e crescita industriale, Special Relation con gli USA) nel nebuloso scacchiere globale.

4. La primaria scelta europeista, come parte integrante del nostro interesse nazionale, non può essere messa in discussione. In quest’ottica dunque preoccupano le esternazioni e le minacce avanzate dal Governo gialloverde nei confronti dell’Unione Europea. E’ importante ribadire che, nonostante la recente tendenza presente nella diplomazia internazionale di superare i normali e consoni canali diplomatici e di scambio, in virtù della cosiddetta “diplomazia diretta” basata sull’interazione immediata e senza filtri tra i protagonisti della scena internazionale (sfruttando i media e i nuovi social network, in una sorta di battaglia all’ultimo tweet), il monopolio della diplomazia appartiene ancora in buona parte all’apparato burocratico specializzato in seno allo Stato. Frasi mirabolanti, spot e slogan elettorali e attacchi pregiudiziali sono all’ordine del giorno nella retorica politica, ma lo sono decisamente molto meno nella dialettica effettiva ed ufficiale delle relazioni interstatali ed internazionali. Cionondiméno possono risultare pericolosi e persino nocivi. Nella fattispecie l’argomentazione nazionalistica e populistica portata avanti da Movimento 5 Stelle e Lega, che si condensa attorno all’Unione Europea, vista come entità “distante”, “burocratizzata” e che “favorisce gli interessi dei poteri forti e delle multinazionali rispetto ai popoli”, sottace anche dei marginali elementi di verità, ma è gravida di conseguenze nefaste per l’interesse nazionale generale. Posto dunque che la “forma” in cui vengono rilasciate talune dichiarazioni non è essenziale di per sé, ma recita formalmente un ruolo importante, il pugno duro governativo nei confronti dell’Unione Europea si è concentrato lungo due assi paralleli: la crescita economica e la rigidità dei parametri imposti da Bruxelles, e la questione migratoria e dei confini meridionali dell’Unione.

5. Per entrambi i fatti l’oratoria governativa mescola (pochi) elementi fattuali e (tanti) elementi irreali e fantasiosi. Per quanto concerne il primo punto, si fa spesso riferimento esplicito ai tre fondamentali vincoli economici previsti dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992): il debito pubblico non deve superare il 60% del PIL; il disavanzo nei conti dello Stato non può superare il 3% del PIL; l’inflazione deve essere contenuta entro il limite dell’1,5% della media dei migliori tre Stati membri. L’accertata evasione di uno di essi può comportare l’avvio di una procedura d’infrazione nei confronti dello Stato responsabile. Alla luce dell’odierna situazione economica e della recente crisi finanziaria e del debito sovrano scatenatasi a partire dal 2008, i parametri macroeconomici previsti da Maastricht paiono strumenti obsoleti e inefficaci per rilanciare la crescita di alcuni Paesi mediterranei duramente colpiti dalla congiuntura finanziaria. Non a caso fra gli studiosi si è fatta avanti la teoria dell’Europa a più velocità per assicurare un’adeguata integrazione politico-economica a differenti livelli a seconda della peculiare situazione di ciascun Paese. Già durante i governi di centrosinistra (2013-2018) ci si era mossi verso una richiesta di maggiore flessibilità nei conti pubblici, in modo da favorire la crescita e lo sviluppo economico. C’è da sottolineare come l’UE, pur insistendo nel chiedere la riduzione dell’enorme debito pubblico italiano (132% del PIL, pari a oltre 2.323 miliardi di euro), non abbia mai multato o sanzionato l’Italia per non aver rispettato i criteri del 1992. Nonostante le rassicurazioni del Ministro dell’Economia Tria, le sparate di Salvini sulla volontà di non rispettare le regole finanziare dell’Unione o di voler abbandonare la moneta unica e il costosissimo programma di Governo stipulato da Lega e M5S (si stima che il costo complessivo delle misure si aggiri intorno ai 100 miliardi di euro), ha messo in allarme gli investitori esteri e i mercati internazionali. L’aumento dello spread BTP/BUND a 10 anni (arrivato ad inizio settembre oltre quota 290 punti base), e, di conseguenza, del tasso d’interesse sui titoli di debito emessi dal Tesoro italiano, rischia di destabilizzare ulteriormente la fragile ripresa dell’economia, andando ad incidere gravemente sul debito pubblico e sui principali parametri macroeconomici strutturali. Il Governo, dinanzi alla fine del Quantitative Easing spalleggiato dalla BCE e alla volontà di intraprendere la “strada della normalità”, invece di percorrere la via del confronto con l’UE ha deciso di proseguire sul sentiero dello scontro aperto. Una scelta tanto muscolare quanto suicida, che nell’immediato può generare consenso elettorale, ma che nel medio periodo minerà sempre più la credibilità del sistema economico e comporterà un’esposizione superiore a crisi ed attacchi speculativi. Ad ogni modo sarà necessario attendere la prossima Legge di Bilancio per verificare l’effettiva e realistica portata degli slogan elettorali di Lega e M5S.

6. Il 28 agosto si è tenuto un incontro “politico” al palazzo della Prefettura di Milano tra il Ministro degli Interni Matteo Salvini e il Premier nazionalista ungherese Viktor Orban. L’abboccamento, favorito dalle comuni radici anti-europeiste e anti-migratorie, getta numerose ombre sulla logica strategica dell’allineamento in Europa di questo Governo e sulla sua effettiva capacità di gestire la situazione migratoria. Per quanto il leader della Lega abbia malcelato l’incontro con Orban come tra leader politici di area affine, l’assonanza con il ruolo istituzionale svolto da Salvini e la cornice istituzionale in cui esso si è svolto (la Prefettura), produce un inevitabile indebolimento delle posizioni italiane nella contrattazione con l’Europa sul tema della gestione dei migranti. L’alleanza o l’avvicinamento ai Paesi del gruppo di Viségrad[7] debilita la forza negoziale italiana che si presenta a Bruxelles con progetti frammentati e con “vicini di casa” scomodi. L’innalzamento dei toni non giova a Roma, che rischia di trovarsi sempre più isolata nell’affrontare il fenomeno migratorio proveniente dagli Stati dell’Africa Settentrionale, Sub-Sahariana e limitatamente (almeno per il nostro Paese) dal Medio Oriente. La geografia risulta ancora determinante, e la nostra centralità mediterranea ci rende meta appetibile per coloro che scappano da fame, guerra e miseria. L’assoluta incapacità del Governo nella gestione della nave italiana Diciotti è lo specchio delle difficoltà politiche connaturate al disegno ideale prospettato dall’esecutivo Conte. Invece di cooperare lealmente con l’UE per raggiungere una mediazione che permetta di superare e migliorare l’attuale Sistema di Dublino, pietra angolare del Diritto Europeo in materia di asilo e status di rifugiato, ci si è abbandonati a minacce fittizie e controproducenti[8]. La diminuzione degli sbarchi inoltre può essere ricondotta all’accordo siglato tra Italia e Libia (principale frontiera di partenza dei migranti) nel gennaio 2017 e alla nuova conformazione geopolitica della regione. La strategia del governo non sembra dunque congrua a gestire efficacemente la crisi migratoria.

7. Come ogni costruzione internazionale, anche l’Unione Europea è perfettibile e sotto molti aspetti di governance riformabile. Tuttavia, parafrasando le parole del Primo Ministro britannico Winston Churchill utilizzate per descrivere la “democrazia”, l’UE rappresenta la “peggior forma di progetto di progetto comunitario, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. L’Europa rappresenta il cardine attorno cui ruota il nostro interesse strategico e nazionale: isolarsi o privarsi da essa significherebbe ridursi alla nullità.

[1] N. SPYKMAN, Geography and Foreign Policy, I, in The American Political Science Review, Vol. 32, No. 1 (Feb. 1938), pp. 28-50. Traduzione: “[La geografia] E’ il fattore più importante nel condizionare la formulazione della politica nazionale poiché è il più permanente. I ministri vanno e vengono, anche i dittatori muoiono, ma le catene montuose si ergono imperturbabili”.

[2] Per un’analisi più approfondita sulla politica estera italiana si veda G. MAMMARELLA e P. CACACE, La politica estera dell’Italia, dallo Stato unitario ai giorni nostri, Editori Laterza, 2012, pp. 316.

[3] In tal senso, di grande valenza simbolica la firma a Roma nel marzo 1957 dei Trattati che istituivano la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom).

[4] Si veda in merito E. ROSSI e A. SPINELLI, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori, 2006, pp. 216.

[5] E. DI NOLFO, Il mondo atlantico e la globalizzazione, Mondadori Università, 2014, pp. 213.

[6] Dati della Banca Mondiale.

[7] Formato da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria

[8] Si vedano in particolare le dichiarazioni del Ministro dello Sviluppo Economico rilasciate alla stampa il 23 agosto 2018, in cui minaccia di porre il veto sul bilancio europeo del 2020 e altresì afferma di non voler più concedere a Bruxelles 20 miliardi di euro annui. La cifra si è rivelata infondata.

Il nuovo scontro (finto) di civiltà

“Il Partito Democratico difende e tutela la dignità di ogni essere umano in quanto tale: sempre dalla stessa parte ci troveremo e sempre dalla stessa parte resteremo” contro ogni steccato ideologico, contro ogni confine unilaterale, contro la paura dello straniero e contro una visione semplicistica, distorta e aggressiva nei confronti del fenomeno internazionale dell’immigrazione e dell’integrazione.

Spesso questi delicati temi, che taluni vogliono ricondurre a stretto giro a quello della sicurezza, sono stati sacrificati all’altare del centrodestra e del nazionalismo becero, che sovente hanno avuto gioco facile nel soffiare sul braciere dell’odio, dell’intolleranza e del razzismo serpeggiante in molti strati delle società occidentali.

Strumentalizzazioni quotidiane che ricalcano, per filo e per segno, le narrazioni mitologiche antiche: i difensori della tradizione europea, perché fa comodo, talvolta, appellarsi ai principi universali e culturali che caratterizzano la società internazionale occidentale, mentre nella prassi quotidiana si coltiva un marcato isolazionismo jacksoniano condito da elementi patriottici e conservatori; oppure i famelici guardiani delle frontiere nazionali, che noncuranti delle organizzazioni mondiali e delle convenzioni internazionali, come quella firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 in materia di statuto dei migranti, che sono sempre pronti ad “affondare” barconi o a rispedirli sull’altra riva del Mediterraneo (sempre che arrivino con la buona intercessione della Divina Provvidenza), senza badare minimamente alle ripercussioni di questi illeciti sulla scena politica mondiale e alle conseguenti sanzioni internazionali.

Un’omogenea armada invincible pronta a sfidare i soliti “moralisti” difensori dei diritti umani, i “perbenisti” con le loro politiche di aperture al Terzo Mondo, i “buonisti” ad oltranza oppure gli stolti idealisti della sinistra, che ancora sognano un mondo di giustizia sociale sostanziale ed effettiva.

Insomma un’epopea contemporanea che narra uno scontro di civiltà inesorabile: NOI contro LORO.

Traslato in termini meramente matematici, per alcune persone, la società internazionale sarebbe ben rappresentata dal codice binario: o sei 0, e non vali assolutamente nulla, o sei 1, l’intero perfetto, nella pratica una parabola coerente dell’eterna antitesi tutto/niente.

Ma siamo davvero sicuri che tra 0 e 1 non vi siano un’infinità di combinazioni e numeri meticci? Siamo davvero sicuri che il mondo sia sempre e comunque un gioco di luci ed ombre statiche e in permanente conflitto?

No!

Un errore del centrosinistra? Essere stato poco chiaro e coraggioso nel prendere scelte, nel predisporre politiche che regolassero e governassero i flussi migratori in maniera totale e globale, nel far emergere l’evidente assurdità del binomio noi/loro, che configurerebbe le nostre realtà sociali come monoliti intangibili, compartimenti stagni, senza alcuna via di comunicazione tra questi mondi diversi, ma non opposti e ostili.

E per la cronaca, l’esistenza intrinseca di un “buonismo perenne” di sinistra, sempre pronto a tutelare lo straniero a discapito dell’autoctono cittadino italiano, è frutto di una banale fantasia ingannevole; se una persona sbaglia è giusto che vanga punita in maniera equa, da una giustizia che si richiami però al principio dell’uguaglianza in senso sostanziale, il quale comporta che situazioni uguali vengano trattate nel medesimo modo ma anche che situazioni diverse vengano trattate in modo differente, dando a tutti le stesse opportunità e rimuovendo i fattori di disparità sociale, culturale ed economica, esistenti tra gli appartenenti alla collettività globale.

Sono stanco di vedere la destra sventolare la bandiera della sicurezza come caposaldo delle proprie campagne elettorali e della propria dottrina politica. In un mondo interdipendente, tendenzialmente multipolare e globalizzato, la logica del noi/loro non porta ad alcun risultato: solo l’integrazione e il rispetto reciproco tra le culture possono rappresentare i cardini su cui fondare il prossimo modello idealtipico di società multietnica e pacifica.

Andrea Poma

Il Dilemma del Califfato Islamico

1. “NousSommesTousCharlie”

Molto si è scritto e detto a proposito degli attacchi terroristici avvenuti a Parigi nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, ad un blocco della polizia nel quartiere di Montrouge e al supermercato Kosher di Porte De Vinciennes, che per tre lunghi giorni hanno paralizzato e scosso le fondamenta di un paese ferito alle proprie radici. Un dardo mortifero perpetrato nella patria dell’illuminismo, non solo ai danni della libertà di pensiero, opinione ed espressione o dei principi repubblicani francesi ma per colpire direttamente i capisaldi delle istituzioni democratiche occidentali che collidono con le convinzioni del fanatismo islamico. Un dardo che tuttavia ha avuto anche l’effetto speculare di riunire l’opinione pubblica francese attorno ai cardini fondamentali della propria società e che ha compattato la Comunità Internazionale nel segno della lotta al terrorismo all’interno della Marche Republicaine più imponente dal dopoguerra. In seguito ad un evento tragico di tale portata è importante non farsi influenzare da alcuni bias concettuali, distorsioni cognitive che spesso inconsciamente applichiamo alla realtà in cui siamo immersi, che tenderebbero a semplificare il mondo che ci circonda disegnando un’istantanea della società francese molto distante dalla verità. Smentiamo quindi categoricamente l’equazione:

Musulmano = Integralista = Terrorista

Una generalizzazione demagogica che molti partiti di estrema destra europei cavalcano per fomentare una delle più antiche paure umane, quella dello “straniero” e del “diverso”, e che si scontra invece alla prova dei fatti con la ferma condanna degli avvenimenti proveniente dalla maggioranza assoluta delle comunità islamiche sparse nel mondo. Hassan Nasrallah, leader delle milizie sciite libanesi di Hezbollah, ha affermato che i terroristi offendono l’Islam “più dei nemici dell’Islam, che hanno insultato il Profeta con film o vignette” aggiungendo che i musulmani devono sforzarsi di “isolare, assediare e sradicare questi gruppi takfiri (sunniti estremisti)”; e una netta condanna degli attentati è giunta anche dal movimento palestinese Hamas, che in una nota ufficiale ha ribadito che “le differenze di opinione e di pensiero non possono giustificare mai un omicidio”.

2. “JeNeSuisPasCharlie” È l’espressione della destra estremista europea, un volto che racconta il linguaggio retorico guerriero dell’odio e del disprezzo fomentato dagli attacchi di Parigi. Una fiamma incendiaria, alimentata in Francia dalle prese di posizione del Front National di Marine Le Pen e Florian Philippot che hanno parlato di “crescenti minacce che mettono in pericolo la nostra vita e la nostra libertà” e che ora, come la fiaccola olimpica, sta correndo rapida e riscuote ampio successo in molti segmenti sociali del tessuto europeo. In Italia il testimone viene raccolto immediatamente da Matteo Salvini secondo cui “Nel nome dell’Islam ci sono milioni di persone in giro per il mondo, anche sui pianerottoli di casa nostra, pronti a sgozzare e uccidere”. Parole che dovrebbero tradursi con l’abolizione dei principi cardine del trattato di Schenghen, con la chiusura delle frontiere mediterranee ed orientali che comporterebbe il conseguente respingimento degli immigrati, con una severa riduzione della libertà di religione e con la reintroduzione del Codice di Hammurabi invocata dal senatore leghista Roberto Calderoli. Una ricetta carica di intolleranza che certo non risolve la questione critica del fondamentalismo in Europa. L’unica rotta davvero perseguibile risulta quindi essere quella dell’apertura al confronto, del dialogo interculturale e dell’integrazione sostanziale in modo che tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali abbiano le stesse possibilità di concorrere alla piena realizzazione personale e alla crescita civile dell’intera società. Un integrazione che parta dal basso, dalla scuola e dall’educazione, e che deve però avere intrinsecamente un carattere di bilateralità necessario: da un lato gli stati occidentali devono creare il giusto humus sociale e politico/normativo per permettere l’effettiva integrazione degli stranieri e nel contempo interrogarsi sulla necessità di rimodulare e trovare nuovi confini all’esplicazione pratica di alcune libertà nel rispetto delle culture universali; dall’altro lato anche gli stranieri devono impegnarsi a rispettare le norme e le leggi della pacifica convivenza e tolleranza presenti all’interno del Paese “ospitante”.

3. Rimane tuttavia spinosa ed insoluta la dimensione esterna della questione parigina, ma che in realtà rappresenta il fulcro del problema medio-orientale: il rapporto tra l’Occidente e il neofita Califfato Islamico dell’Isis. Come la stampa internazione e i diversi servizi segreti governativi hanno confermato i fratelli Said e Chérif Kouachi e il loro compagno Amédy Coulibaly si sarebbero addestrati inizialmente in alcuni campi di combattimento nello Yemen e successivamente avrebbero aderito alle milizie fondamentaliste dell’Isis molto attive al confine tra Siria e Turchia, prima di fare ritorno in Francia (si stima che siano oltre 1.100 i “foreign fighters” francesi). E’ palese infatti come le reti terroristiche islamiche in Europa traggano la propria linfa vitale dall’azione politico/militare e mediatica dello Stato Islamico e delle organizzazioni terroristiche come Al-Qaida o Aden-Abyad in Medio Oriente o Boko Haram in Nigeria. Profetico di questa nuova accelerazione verso una dimensione internazionale e globale del fenomeno terroristico fu il lapidario discorso sentenziato dal capo supremo dell’Isis Abu Bakr al- Baghdadi “O mujaheddin in Europa, America, Australia, Canada, Marocco, Algeria, Caucaso, Iran […] Voi che ammirate lo Stato Islamico, consideratevi soldati, uccidete i miscredenti sia civili che militari […] Non chiedete a nessuno un consiglio…siete autorizzati a farlo, non è peccato”. Ma come può agire la Comunità Internazionale per arginare e contrastare in maniera efficace la grave minaccia rappresentata dal Califfato Islamico? Proviamo ad ipotizzare due possibili scenari antitetici al centro del dibattito Internazionale:

1- Ci si dovrebbe interrogare su quale peso specifico effettivo abbiano i rapporti di forza tra gli Stati e il fattore economico rispetto alla diplomazia e alle organizzazioni internazionali a livello globale. Ad un livello ideale e istituzionale la strada del dialogo e della cooperazione unitaria dovrebbe rappresentare la via maestra per la risoluzione delle controversie e delle crisi diplomatiche, tuttavia la realtà delle relazioni internazionali ci ha dimostrato come la teoria spesso non sia applicabile ad un contesto generale così fluido e stratificato. Per scongiurare il conflitto bellico sarebbe essenziale riuscire ad unificare le posizioni di tutto il mondo musulmano accanto a quello occidentale, con un negoziato regionale ad ampio respiro, in modo da neutralizzare sia dal punto di vista economico che diplomatico lo Stato Islamico. Il contemporaneo isolamento internazionale e una lotta seria contro il terrorismo islamico nei paesi della NATO indebolirebbero le solide fondamenta del califfato, che potrebbe iniziare a sgretolarsi dal proprio interno fino a implodere. A corollario un’altra possibile soluzione potrebbe anche essere quella suggerita da Anonymus e già messa parzialmente in atto: entrare nei siti jihadisti per ottenere informazioni utili e oscurarne quanti più possibile, specie se inneggianti all’islamismo radicale. Indubbiamente si tratta di ipotesi di difficile attuazione pratica: il disegno terroristico dell’Isis di creare disordine e caos, gli ingenti capitali e gli interessi che il Califfato muove, il difficile coordinamento unitario tra le diverse cancellerie (nonostante sia già passata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione volta a ostacolare il reclutamento e il finanziamento dei jihadisti dello Stato islamico attivi in Siria e in Iraq) e le diverse strategie che ogni potenza adotta liberamente rendono ardua da praticare ogni possibile exit strategy politica.

2- I cruenti attentati in Francia hanno rinvigorito le posizioni di coloro che sin dalla prima ora si erano schierati per un intervento contro il regime di al-Baghdadi che si spingesse ben oltre ai raid aerei e agli aiuti militari ai pashmerga curdi e agli eserciti regolari di Siria e Iraq, ma preveda l’invio di contingenti da terra ed impegni direttamente sul campo di battaglia la NATO e i paesi arabi tradizionalmente alleati degli Stati Uniti (Arabia Saudita, Giordania, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti). L’obiettivo finale sarebbe la dissoluzione completa dell’Isis, dalle cui ceneri dovrebbero nascere, attraverso un processo democratico diretto, nuovi governi regolari e legittimi che rispettino gli antichi confini regionali. L’ipotesi tuttavia presenta numerosi limiti e perplessità soprattutto nella gestione politica e sociale della transizione post-califfato islamico; la storia internazionale ci offre alcuni esempi lampanti in Iraq, Afghanistan e Libia di come i buoni propositi idealistici degli occidentali spesso cozzino contro la diversa realtà dei paesi arabi. Inoltre se vi è davvero una legge oggettiva e scientifica asseribile al comportamento umano è che “se si usa la violenza per combattere altra violenza, si genererà solo ulteriore violenza” o per parafrasare lo storico Tzvetan Todorov “la paura dei barbari può renderci barbari”. Una guerra aperta all’Isis, soprattutto se condotta sommariamente, rischierebbe di far cadere l’intera regione in una sanguinaria spirale di violenza e terrore che presto potrebbe espandersi agli stati vicini.

4. Infine un’ultima riflessione sulle colpe dell’Occidente. È innegabile che il colonialismo e l’imperialismo del passato e quello attuale sono tra le cause dell’odierna violenza islamica e della difficile (se non impossibile) stabilità politico/sociale del Medio-Oriente e dell’Africa. Con un bagno di umiltà fragoroso l’Occidente dovrebbe guardarsi allo specchio e analizzare introspettivamente le scelte fatte in passato e che oggi ricadono drammaticamente sul presente. La questione fondamentale a monte di ogni ragionamento geopolitico se parliamo del rapporto tra Occidente e il resto del mondo sia dal punto di vista ontologico che metodologico rimane di difficile risposta: è tollerabile o necessario l’intervento occidentale, di fronte a palesi violazioni dei diritti umani e dei principi cardine della democrazia e libertà perpetrati da paesi stranieri, anche di tipo militare per “esportare” i propri ideali e pensiero politico o dovrebbe rispettare il processo storico di ogni paese di sviluppo e crescita culturale, attendendo che dal processo di coscienza civile del popolo sovrano emergano istanze simili a quelle occidentali? Oggi sembra che l’Europa e gli americani abbiano adottato un sistema misto di intervento basato però su meri interessi economici e strategici, che sicuramente non favoriscono il processo di sviluppo e pacificazione dell’area medio-orientale.