Le armi spuntate dell’autoritarismo governativo in Europa

di Andrea Poma

1. In dottrina si tende a considerare la politica estera come estranea all’agone politico e ai giochi di potere partitici. Generalmente i capisaldi e i principi generali dell’agire concreto negli affari internazionali non dovrebbero, quantomeno nei fini ultimi e negli obiettivi sostanziali, riflettere o essere apertamente influenzati dalle opinioni o dal pensiero politico dell’élite al governo. L’interesse nazionale non ha colore o ideologia, ma cangia e si adatta al mutare del contesto storico e del sistema di riferimento globale a cui asserisce. Esso s’intarsia sulla base di profonde istanze geopolitiche, economiche, sociali e strutturali, e non certo sulle passioni estemporanee o sul carattere, spesso schizofrenico, del legislatore chiamato al comando dalle urne. D’altro canto, per usare le parole del geopolitico americano Nikolas Spykman, “[Geography] It is the most fundamentally conditioning factor in the formulation of national policy because it is the most permanent. Ministers come and ministers go, even dictators die, but mountain ranges stand unperturbed”[1]

2. Preso atto della premessa è lecito chiedersi se l’azione del Governo italiano, con particolare riferimento alle due prominenti figure di capi partitici che annovera al proprio interno, collimi de facto con il corroboramento dell’interesse nazionale e con la crescita della posizione italiana nell’orizzonte europeo ed internazionale. Questione preliminare a predetto quesito risulta essere la nozione di interesse nazionale. Espressione già di per sé sfuggevole e fumosa, essa assume, nella fattispecie italiana, una connotazione di difficile interpretazione, a causa di una serie di fattori intrinseci. Sin dalla nascita dello Stato unitario (1861), l’azione internazionale del Governo ha dovuto scontare una serie di forti criticità dettate da concause naturali (vulnerabilità dei confini e posizione geografica peninsulare costantemente dilaniata fra le istanze mediterranee e continentali, nonché la vicinanza alla polveriera dei Balcani), internazionali (costante ricerca di un rango internazionale “appropriato”, ricorso al presenzialismo e ricerca di alleanze asimmetriche con Potenze globali), politiche (instabilità politica, frequenti scontri istituzionali e disinteresse generalizzato delle élite politiche nei confronti degli affari internazionali) e socio-economiche (disparità economica ed industriale tra Nord e Mezzogiorno, presenza radicata di Mafie e criminalità organizzata nel tessuto sociale di ampie aree del Paese, deficit di strumenti e di riforme strutturali del modello macroeconomico, esposizione finanziaria e debito pubblico esorbitante). Ciò ha prodotto conseguenze tangibili sulla politica estera italiana generando uno status ibrido di potenza (piccola o media Potenza?), che si scontra con un serpeggiante sentimento di incertezza e di debole credibilità internazionale (a cui per la verità hanno contribuito episodi grotteschi e poco edificanti perpetrati dal nostro corpus politico-diplomatico)[2]. Ad ogni modo, se dovessimo ricercare un filo conduttore utile a rintracciare una parvenza di disegno strategico nazionale, nel marasma della politica estera italiana, potremmo citare l’ancoraggio al multilateralismo avallato senza particolari indugi a partire dal Governo di unità nazionale presieduto da Alcide De Gasperi (1945). La scommessa di Roma di puntare sullo sviluppo e il rafforzamento delle istituzioni comunitarie ed internazionali[3] ha pagato, in parte, i dividendi sperati, rilanciando la traballante posizione italiana, appena uscita dalle macerie di una guerra civile e di una dittatura, sia nel campo Occidentale sia nel panorama globale. La crescita sostanziale delle Nazioni Unite e l’adesione alla NATO e alla Comunità Europea hanno contribuito in maniera determinante al progresso e all’espansione economica e politica dello Stato italiano.

3. Sicuramente il percorso europeo è risultato il più fecondo dal punto di vista dei risultati e del mero tornaconto nazionale. Nonostante le alterne fortune del progetto comunitario, la fine della Guerra Fredda (e della “cortina di ferro” tra gli assi Est/Ovest in seno al Vecchio Continente) e la rinnovata forza motrice impressa dal Trattato di Maastricht hanno tratteggiato quell’embrione di unione politica tanto agognata dai padri fondatori e dagli idealisti europei fin dalla prima metà del XX secolo[4]. La scelta dell’aggregazione europea, posta come vincolo dal Presidente degli Stati Uniti Henry Truman per poter accedere alle tranches di aiuti economici previsti nel Piano Marshall, unita alla convergenza militare atlantica, sancita con la firma del North Atlantic Treaty nell’aprile 1949, comportò un sostanziale miglioramento del falcidiato quadro generale europeo del post-guerra e un benessere diffuso nelle società del campo Occidentale. Tra il 1958 e il 1970, la CEE composta dai sei paesi fondatori vide le sue esportazioni verso gli Stati Uniti salire da 1,7 miliardi di dollari a 6,6 miliardi, con una percentuale che passò dal 10,9% al 14,8% del totale delle esportazioni dei sei[5]. Allo stesso tempo il mercato comune europeo si rivelò un tassello decisivo nel fenomeno del “miracolo economico italiano”: tra il 1961 e il 1970 il PIL italiano crebbe ad un tasso medio del 5,7%[6] (con un apice del 8,2% nel 1961), nel triennio 1959-61 il reddito pro capite crebbe ad un tasso medio del 6,3% mentre la produzione industriale aumentò del 31,4%. Trattasi di dati macroeconomici straordinari che traghettarono l’Italia da paese arretrato e basato sull’agricoltura ad una tra le principali Potenze economiche internazionali, come certificato dall’ingresso nel G6 nel 1976. I positivi influssi europei tuttavia non si limitarono unicamente all’ambito economico, ma interessarono ogni altro aspetto della vita sociale e politica italiana. Basti solamente pensare agli Atto finale di Helsinki della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (1975) in cui il tema del rispetto dei diritti umani vanne elevato a carattere universale, o al perdurante periodo di pace (macchiato per la verità dai conflitti etnici nei Balcani e dalla Crisi ucraina del 2014) che ha visto protrarsi dal 1945 ai giorni nostri, in un Continente da sempre fautore e assertore di guerre. Inoltre nel mondo della globalizzazione e dei sistemi regionali, dove grandi Potenze emergenti o revansciste si apprestano a sfidare il dominio monocipite degli Stati Uniti d’America, solo un’Italia inserita profondamente nel diagramma dell’Unione Europea può sperare efficacemente di giocare un ruolo attivo nella costruzione dei legami e delle interdipendenze del futuro sistema internazionale. Presi singolarmente infatti saremmo deboli e insufficienti, anche in rapporto ad altri Stati europei (Francia, Germania, Regno Unito) che possono giocare diverse ed importanti pedine (rango militare, economia e crescita industriale, Special Relation con gli USA) nel nebuloso scacchiere globale.

4. La primaria scelta europeista, come parte integrante del nostro interesse nazionale, non può essere messa in discussione. In quest’ottica dunque preoccupano le esternazioni e le minacce avanzate dal Governo gialloverde nei confronti dell’Unione Europea. E’ importante ribadire che, nonostante la recente tendenza presente nella diplomazia internazionale di superare i normali e consoni canali diplomatici e di scambio, in virtù della cosiddetta “diplomazia diretta” basata sull’interazione immediata e senza filtri tra i protagonisti della scena internazionale (sfruttando i media e i nuovi social network, in una sorta di battaglia all’ultimo tweet), il monopolio della diplomazia appartiene ancora in buona parte all’apparato burocratico specializzato in seno allo Stato. Frasi mirabolanti, spot e slogan elettorali e attacchi pregiudiziali sono all’ordine del giorno nella retorica politica, ma lo sono decisamente molto meno nella dialettica effettiva ed ufficiale delle relazioni interstatali ed internazionali. Cionondiméno possono risultare pericolosi e persino nocivi. Nella fattispecie l’argomentazione nazionalistica e populistica portata avanti da Movimento 5 Stelle e Lega, che si condensa attorno all’Unione Europea, vista come entità “distante”, “burocratizzata” e che “favorisce gli interessi dei poteri forti e delle multinazionali rispetto ai popoli”, sottace anche dei marginali elementi di verità, ma è gravida di conseguenze nefaste per l’interesse nazionale generale. Posto dunque che la “forma” in cui vengono rilasciate talune dichiarazioni non è essenziale di per sé, ma recita formalmente un ruolo importante, il pugno duro governativo nei confronti dell’Unione Europea si è concentrato lungo due assi paralleli: la crescita economica e la rigidità dei parametri imposti da Bruxelles, e la questione migratoria e dei confini meridionali dell’Unione.

5. Per entrambi i fatti l’oratoria governativa mescola (pochi) elementi fattuali e (tanti) elementi irreali e fantasiosi. Per quanto concerne il primo punto, si fa spesso riferimento esplicito ai tre fondamentali vincoli economici previsti dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992): il debito pubblico non deve superare il 60% del PIL; il disavanzo nei conti dello Stato non può superare il 3% del PIL; l’inflazione deve essere contenuta entro il limite dell’1,5% della media dei migliori tre Stati membri. L’accertata evasione di uno di essi può comportare l’avvio di una procedura d’infrazione nei confronti dello Stato responsabile. Alla luce dell’odierna situazione economica e della recente crisi finanziaria e del debito sovrano scatenatasi a partire dal 2008, i parametri macroeconomici previsti da Maastricht paiono strumenti obsoleti e inefficaci per rilanciare la crescita di alcuni Paesi mediterranei duramente colpiti dalla congiuntura finanziaria. Non a caso fra gli studiosi si è fatta avanti la teoria dell’Europa a più velocità per assicurare un’adeguata integrazione politico-economica a differenti livelli a seconda della peculiare situazione di ciascun Paese. Già durante i governi di centrosinistra (2013-2018) ci si era mossi verso una richiesta di maggiore flessibilità nei conti pubblici, in modo da favorire la crescita e lo sviluppo economico. C’è da sottolineare come l’UE, pur insistendo nel chiedere la riduzione dell’enorme debito pubblico italiano (132% del PIL, pari a oltre 2.323 miliardi di euro), non abbia mai multato o sanzionato l’Italia per non aver rispettato i criteri del 1992. Nonostante le rassicurazioni del Ministro dell’Economia Tria, le sparate di Salvini sulla volontà di non rispettare le regole finanziare dell’Unione o di voler abbandonare la moneta unica e il costosissimo programma di Governo stipulato da Lega e M5S (si stima che il costo complessivo delle misure si aggiri intorno ai 100 miliardi di euro), ha messo in allarme gli investitori esteri e i mercati internazionali. L’aumento dello spread BTP/BUND a 10 anni (arrivato ad inizio settembre oltre quota 290 punti base), e, di conseguenza, del tasso d’interesse sui titoli di debito emessi dal Tesoro italiano, rischia di destabilizzare ulteriormente la fragile ripresa dell’economia, andando ad incidere gravemente sul debito pubblico e sui principali parametri macroeconomici strutturali. Il Governo, dinanzi alla fine del Quantitative Easing spalleggiato dalla BCE e alla volontà di intraprendere la “strada della normalità”, invece di percorrere la via del confronto con l’UE ha deciso di proseguire sul sentiero dello scontro aperto. Una scelta tanto muscolare quanto suicida, che nell’immediato può generare consenso elettorale, ma che nel medio periodo minerà sempre più la credibilità del sistema economico e comporterà un’esposizione superiore a crisi ed attacchi speculativi. Ad ogni modo sarà necessario attendere la prossima Legge di Bilancio per verificare l’effettiva e realistica portata degli slogan elettorali di Lega e M5S.

6. Il 28 agosto si è tenuto un incontro “politico” al palazzo della Prefettura di Milano tra il Ministro degli Interni Matteo Salvini e il Premier nazionalista ungherese Viktor Orban. L’abboccamento, favorito dalle comuni radici anti-europeiste e anti-migratorie, getta numerose ombre sulla logica strategica dell’allineamento in Europa di questo Governo e sulla sua effettiva capacità di gestire la situazione migratoria. Per quanto il leader della Lega abbia malcelato l’incontro con Orban come tra leader politici di area affine, l’assonanza con il ruolo istituzionale svolto da Salvini e la cornice istituzionale in cui esso si è svolto (la Prefettura), produce un inevitabile indebolimento delle posizioni italiane nella contrattazione con l’Europa sul tema della gestione dei migranti. L’alleanza o l’avvicinamento ai Paesi del gruppo di Viségrad[7] debilita la forza negoziale italiana che si presenta a Bruxelles con progetti frammentati e con “vicini di casa” scomodi. L’innalzamento dei toni non giova a Roma, che rischia di trovarsi sempre più isolata nell’affrontare il fenomeno migratorio proveniente dagli Stati dell’Africa Settentrionale, Sub-Sahariana e limitatamente (almeno per il nostro Paese) dal Medio Oriente. La geografia risulta ancora determinante, e la nostra centralità mediterranea ci rende meta appetibile per coloro che scappano da fame, guerra e miseria. L’assoluta incapacità del Governo nella gestione della nave italiana Diciotti è lo specchio delle difficoltà politiche connaturate al disegno ideale prospettato dall’esecutivo Conte. Invece di cooperare lealmente con l’UE per raggiungere una mediazione che permetta di superare e migliorare l’attuale Sistema di Dublino, pietra angolare del Diritto Europeo in materia di asilo e status di rifugiato, ci si è abbandonati a minacce fittizie e controproducenti[8]. La diminuzione degli sbarchi inoltre può essere ricondotta all’accordo siglato tra Italia e Libia (principale frontiera di partenza dei migranti) nel gennaio 2017 e alla nuova conformazione geopolitica della regione. La strategia del governo non sembra dunque congrua a gestire efficacemente la crisi migratoria.

7. Come ogni costruzione internazionale, anche l’Unione Europea è perfettibile e sotto molti aspetti di governance riformabile. Tuttavia, parafrasando le parole del Primo Ministro britannico Winston Churchill utilizzate per descrivere la “democrazia”, l’UE rappresenta la “peggior forma di progetto di progetto comunitario, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. L’Europa rappresenta il cardine attorno cui ruota il nostro interesse strategico e nazionale: isolarsi o privarsi da essa significherebbe ridursi alla nullità.

[1] N. SPYKMAN, Geography and Foreign Policy, I, in The American Political Science Review, Vol. 32, No. 1 (Feb. 1938), pp. 28-50. Traduzione: “[La geografia] E’ il fattore più importante nel condizionare la formulazione della politica nazionale poiché è il più permanente. I ministri vanno e vengono, anche i dittatori muoiono, ma le catene montuose si ergono imperturbabili”.

[2] Per un’analisi più approfondita sulla politica estera italiana si veda G. MAMMARELLA e P. CACACE, La politica estera dell’Italia, dallo Stato unitario ai giorni nostri, Editori Laterza, 2012, pp. 316.

[3] In tal senso, di grande valenza simbolica la firma a Roma nel marzo 1957 dei Trattati che istituivano la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom).

[4] Si veda in merito E. ROSSI e A. SPINELLI, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori, 2006, pp. 216.

[5] E. DI NOLFO, Il mondo atlantico e la globalizzazione, Mondadori Università, 2014, pp. 213.

[6] Dati della Banca Mondiale.

[7] Formato da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria

[8] Si vedano in particolare le dichiarazioni del Ministro dello Sviluppo Economico rilasciate alla stampa il 23 agosto 2018, in cui minaccia di porre il veto sul bilancio europeo del 2020 e altresì afferma di non voler più concedere a Bruxelles 20 miliardi di euro annui. La cifra si è rivelata infondata.