Il Dilemma del Califfato Islamico

1. “NousSommesTousCharlie”

Molto si è scritto e detto a proposito degli attacchi terroristici avvenuti a Parigi nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, ad un blocco della polizia nel quartiere di Montrouge e al supermercato Kosher di Porte De Vinciennes, che per tre lunghi giorni hanno paralizzato e scosso le fondamenta di un paese ferito alle proprie radici. Un dardo mortifero perpetrato nella patria dell’illuminismo, non solo ai danni della libertà di pensiero, opinione ed espressione o dei principi repubblicani francesi ma per colpire direttamente i capisaldi delle istituzioni democratiche occidentali che collidono con le convinzioni del fanatismo islamico. Un dardo che tuttavia ha avuto anche l’effetto speculare di riunire l’opinione pubblica francese attorno ai cardini fondamentali della propria società e che ha compattato la Comunità Internazionale nel segno della lotta al terrorismo all’interno della Marche Republicaine più imponente dal dopoguerra. In seguito ad un evento tragico di tale portata è importante non farsi influenzare da alcuni bias concettuali, distorsioni cognitive che spesso inconsciamente applichiamo alla realtà in cui siamo immersi, che tenderebbero a semplificare il mondo che ci circonda disegnando un’istantanea della società francese molto distante dalla verità. Smentiamo quindi categoricamente l’equazione:

Musulmano = Integralista = Terrorista

Una generalizzazione demagogica che molti partiti di estrema destra europei cavalcano per fomentare una delle più antiche paure umane, quella dello “straniero” e del “diverso”, e che si scontra invece alla prova dei fatti con la ferma condanna degli avvenimenti proveniente dalla maggioranza assoluta delle comunità islamiche sparse nel mondo. Hassan Nasrallah, leader delle milizie sciite libanesi di Hezbollah, ha affermato che i terroristi offendono l’Islam “più dei nemici dell’Islam, che hanno insultato il Profeta con film o vignette” aggiungendo che i musulmani devono sforzarsi di “isolare, assediare e sradicare questi gruppi takfiri (sunniti estremisti)”; e una netta condanna degli attentati è giunta anche dal movimento palestinese Hamas, che in una nota ufficiale ha ribadito che “le differenze di opinione e di pensiero non possono giustificare mai un omicidio”.

2. “JeNeSuisPasCharlie” È l’espressione della destra estremista europea, un volto che racconta il linguaggio retorico guerriero dell’odio e del disprezzo fomentato dagli attacchi di Parigi. Una fiamma incendiaria, alimentata in Francia dalle prese di posizione del Front National di Marine Le Pen e Florian Philippot che hanno parlato di “crescenti minacce che mettono in pericolo la nostra vita e la nostra libertà” e che ora, come la fiaccola olimpica, sta correndo rapida e riscuote ampio successo in molti segmenti sociali del tessuto europeo. In Italia il testimone viene raccolto immediatamente da Matteo Salvini secondo cui “Nel nome dell’Islam ci sono milioni di persone in giro per il mondo, anche sui pianerottoli di casa nostra, pronti a sgozzare e uccidere”. Parole che dovrebbero tradursi con l’abolizione dei principi cardine del trattato di Schenghen, con la chiusura delle frontiere mediterranee ed orientali che comporterebbe il conseguente respingimento degli immigrati, con una severa riduzione della libertà di religione e con la reintroduzione del Codice di Hammurabi invocata dal senatore leghista Roberto Calderoli. Una ricetta carica di intolleranza che certo non risolve la questione critica del fondamentalismo in Europa. L’unica rotta davvero perseguibile risulta quindi essere quella dell’apertura al confronto, del dialogo interculturale e dell’integrazione sostanziale in modo che tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali abbiano le stesse possibilità di concorrere alla piena realizzazione personale e alla crescita civile dell’intera società. Un integrazione che parta dal basso, dalla scuola e dall’educazione, e che deve però avere intrinsecamente un carattere di bilateralità necessario: da un lato gli stati occidentali devono creare il giusto humus sociale e politico/normativo per permettere l’effettiva integrazione degli stranieri e nel contempo interrogarsi sulla necessità di rimodulare e trovare nuovi confini all’esplicazione pratica di alcune libertà nel rispetto delle culture universali; dall’altro lato anche gli stranieri devono impegnarsi a rispettare le norme e le leggi della pacifica convivenza e tolleranza presenti all’interno del Paese “ospitante”.

3. Rimane tuttavia spinosa ed insoluta la dimensione esterna della questione parigina, ma che in realtà rappresenta il fulcro del problema medio-orientale: il rapporto tra l’Occidente e il neofita Califfato Islamico dell’Isis. Come la stampa internazione e i diversi servizi segreti governativi hanno confermato i fratelli Said e Chérif Kouachi e il loro compagno Amédy Coulibaly si sarebbero addestrati inizialmente in alcuni campi di combattimento nello Yemen e successivamente avrebbero aderito alle milizie fondamentaliste dell’Isis molto attive al confine tra Siria e Turchia, prima di fare ritorno in Francia (si stima che siano oltre 1.100 i “foreign fighters” francesi). E’ palese infatti come le reti terroristiche islamiche in Europa traggano la propria linfa vitale dall’azione politico/militare e mediatica dello Stato Islamico e delle organizzazioni terroristiche come Al-Qaida o Aden-Abyad in Medio Oriente o Boko Haram in Nigeria. Profetico di questa nuova accelerazione verso una dimensione internazionale e globale del fenomeno terroristico fu il lapidario discorso sentenziato dal capo supremo dell’Isis Abu Bakr al- Baghdadi “O mujaheddin in Europa, America, Australia, Canada, Marocco, Algeria, Caucaso, Iran […] Voi che ammirate lo Stato Islamico, consideratevi soldati, uccidete i miscredenti sia civili che militari […] Non chiedete a nessuno un consiglio…siete autorizzati a farlo, non è peccato”. Ma come può agire la Comunità Internazionale per arginare e contrastare in maniera efficace la grave minaccia rappresentata dal Califfato Islamico? Proviamo ad ipotizzare due possibili scenari antitetici al centro del dibattito Internazionale:

1- Ci si dovrebbe interrogare su quale peso specifico effettivo abbiano i rapporti di forza tra gli Stati e il fattore economico rispetto alla diplomazia e alle organizzazioni internazionali a livello globale. Ad un livello ideale e istituzionale la strada del dialogo e della cooperazione unitaria dovrebbe rappresentare la via maestra per la risoluzione delle controversie e delle crisi diplomatiche, tuttavia la realtà delle relazioni internazionali ci ha dimostrato come la teoria spesso non sia applicabile ad un contesto generale così fluido e stratificato. Per scongiurare il conflitto bellico sarebbe essenziale riuscire ad unificare le posizioni di tutto il mondo musulmano accanto a quello occidentale, con un negoziato regionale ad ampio respiro, in modo da neutralizzare sia dal punto di vista economico che diplomatico lo Stato Islamico. Il contemporaneo isolamento internazionale e una lotta seria contro il terrorismo islamico nei paesi della NATO indebolirebbero le solide fondamenta del califfato, che potrebbe iniziare a sgretolarsi dal proprio interno fino a implodere. A corollario un’altra possibile soluzione potrebbe anche essere quella suggerita da Anonymus e già messa parzialmente in atto: entrare nei siti jihadisti per ottenere informazioni utili e oscurarne quanti più possibile, specie se inneggianti all’islamismo radicale. Indubbiamente si tratta di ipotesi di difficile attuazione pratica: il disegno terroristico dell’Isis di creare disordine e caos, gli ingenti capitali e gli interessi che il Califfato muove, il difficile coordinamento unitario tra le diverse cancellerie (nonostante sia già passata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione volta a ostacolare il reclutamento e il finanziamento dei jihadisti dello Stato islamico attivi in Siria e in Iraq) e le diverse strategie che ogni potenza adotta liberamente rendono ardua da praticare ogni possibile exit strategy politica.

2- I cruenti attentati in Francia hanno rinvigorito le posizioni di coloro che sin dalla prima ora si erano schierati per un intervento contro il regime di al-Baghdadi che si spingesse ben oltre ai raid aerei e agli aiuti militari ai pashmerga curdi e agli eserciti regolari di Siria e Iraq, ma preveda l’invio di contingenti da terra ed impegni direttamente sul campo di battaglia la NATO e i paesi arabi tradizionalmente alleati degli Stati Uniti (Arabia Saudita, Giordania, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti). L’obiettivo finale sarebbe la dissoluzione completa dell’Isis, dalle cui ceneri dovrebbero nascere, attraverso un processo democratico diretto, nuovi governi regolari e legittimi che rispettino gli antichi confini regionali. L’ipotesi tuttavia presenta numerosi limiti e perplessità soprattutto nella gestione politica e sociale della transizione post-califfato islamico; la storia internazionale ci offre alcuni esempi lampanti in Iraq, Afghanistan e Libia di come i buoni propositi idealistici degli occidentali spesso cozzino contro la diversa realtà dei paesi arabi. Inoltre se vi è davvero una legge oggettiva e scientifica asseribile al comportamento umano è che “se si usa la violenza per combattere altra violenza, si genererà solo ulteriore violenza” o per parafrasare lo storico Tzvetan Todorov “la paura dei barbari può renderci barbari”. Una guerra aperta all’Isis, soprattutto se condotta sommariamente, rischierebbe di far cadere l’intera regione in una sanguinaria spirale di violenza e terrore che presto potrebbe espandersi agli stati vicini.

4. Infine un’ultima riflessione sulle colpe dell’Occidente. È innegabile che il colonialismo e l’imperialismo del passato e quello attuale sono tra le cause dell’odierna violenza islamica e della difficile (se non impossibile) stabilità politico/sociale del Medio-Oriente e dell’Africa. Con un bagno di umiltà fragoroso l’Occidente dovrebbe guardarsi allo specchio e analizzare introspettivamente le scelte fatte in passato e che oggi ricadono drammaticamente sul presente. La questione fondamentale a monte di ogni ragionamento geopolitico se parliamo del rapporto tra Occidente e il resto del mondo sia dal punto di vista ontologico che metodologico rimane di difficile risposta: è tollerabile o necessario l’intervento occidentale, di fronte a palesi violazioni dei diritti umani e dei principi cardine della democrazia e libertà perpetrati da paesi stranieri, anche di tipo militare per “esportare” i propri ideali e pensiero politico o dovrebbe rispettare il processo storico di ogni paese di sviluppo e crescita culturale, attendendo che dal processo di coscienza civile del popolo sovrano emergano istanze simili a quelle occidentali? Oggi sembra che l’Europa e gli americani abbiano adottato un sistema misto di intervento basato però su meri interessi economici e strategici, che sicuramente non favoriscono il processo di sviluppo e pacificazione dell’area medio-orientale.